Il Grande Equivoco
- Cycling Chronicles
- Mar 21, 2019
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Updated: Mar 28, 2019
Di Peter Sagan e delle sue Volate
Quando, ai meno trecento metri dal traguardo della Milano – Sanremo 2019, il gruppo di nove uomini che si sarebbe giocato la vittoria è passato dal nostro punto di osservazione, qualcuno, al di qua delle transenne, ha urlato: “ti stanno prendendo da sinistra!”. Ovviamente Peter Sagan non ha potuto cogliere l’estremo suggerimento che avrebbe cambiato le sorti della sua volata.
E del suo palmares.
Che una vittoria alla Milano – Sanremo, come forse in ogni altra corsa esistente, rappresenterebbe null’altro che una certificazione ulteriore della forza saganiana, è fatto di cui mi sono convinto da tempo, riposto sulla consapevolezza che è tanto e tale ciò che Peter Sagan ha mostrato, da un punto di vista puramente agonistico, da risultare per ciò solo bastevole per conferire al fuoriclasse slovacco l’aura del mito.
Ma il mito vive per le imprese e le imprese sono battaglie vinte e nemici sconfitti. Detto in termini più pragmatici: Peter Sagan è condannato a vincere, se non altro per tenere lontane le stucchevoli etichettature di “perdente di successo”, di “fenomeno compiuto a metà”, di “grande, ma non grande vincente”. A questa fastidiosa constatazione se ne aggiunge un’altra. In un ciclismo fatto di tante competizioni, non tutte di pari importanza (si tralascia ogni osservazione in proposito, che rischierebbe di condurre a riflessioni eccessivamente ampie), il diverso peso delle corse, rapportato al palmares già formato dell’atleta, riduce notevolmente il novero delle vittorie che produrrebbero un’incidenza significativa sul bilancio di Sagan. Un atleta di tale levatura, unico nella storia a vincere tre mondiali consecutivi e già capace di conquistare le due monumento del pavè, oltre ad altri 105 successi, in che misura potrebbe beneficiare della conquista di una quarta Gand – Wevelgem (ne ha già vinte tre ndr)? Sebbene manchi ancora qualcosina, specialmente nel settore di competenza (vedere alla voce Omloop Het Niewsblaad), pare innegabile che l’incidenza sul palmares di Sagan sia ormai ascrivibile alle cinque classiche monumento e alla rassegna iridata, le sei perle della collana ciclistica su strada. Se Fiandre e Roubaix sono contesti in cui ha già dimostrato di sapersi imporre, se sulla conquista della maglia iridata potrebbe addirittura tenere una lectio magistralis, se la Liegi – Bastogne - Liegi è ancora un’incognita e il Lombardia pare, al momento, impresa impossibile, con la Milano - Sanremo rimane un conto aperto, il cui saldo sembrerebbe inevitabile, al netto dei dubbi maturati dopo gli otto mancati incassi.
Le disfatte sanremesi
L’esito dell’ultima Classicissima, per Peter Sagan, è stato particolarmente amaro. Difficile raffrontare la sconfitta alle omologhe del 2013, quando cedette a Ciolek dopo una corsa gelida e dimezzata, e dell’edizione del 2017, quando perse da Kwiatkowski una volata a tre in cui al polacco e ad Alaphilippe, terzo compagno d’azione, si davano pochissime chance di imporsi nello sprint ristretto.
Con quelle edizioni però, qualcosa in comune c’è. Il primo elemento è che, per caratteristiche dell’atleta, raffrontate alla concorrenza di contesto, le tre edizioni in questione sono quelle in cui Sagan è sembrato più vicino al successo finale. Il secondo fattore di comunanza è che le tre sconfitte sono maturate a seguito di vistosi errori nella gestione dello sprint conclusivo. Quello del sabato appena trascorso, in particolare, è parso piuttosto marchiano. Capace di chiudere sull’azione di Alaphilippe in cima al Poggio, Sagan è rimasto meno al vento che in altre edizioni tra la discesa e il tratto che dalla rotonda prosegue fino al rettilineo finale. Presa la testa del drappello di nove uomini ai meno cinquecento metri, sembrava che Sagan, da quella posizione, volesse lanciare una progressione perentoria, come capita quando l’uomo più veloce del lotto è responsabilizzato dello sprint. Dal nostro punto di osservazione (ci trovavamo ai meno trecento metri alla destra della carreggiata) è parsa evidente una prima circostanza. Trovandosi a centro strada, in una posizione poco accorta, specie se si tiene presente che il gruppo ristretto comprendeva una decina di avversari (e non soltanto due, come nel 2017) Sagan doveva controllare eventuali anticipi su due lati. Il lato sorvegliato era quello destro: Sagan guardava in faccia Valverde e Trentin (che in precedenza, peraltro, aveva provato lo scatto disperato prima dell’ultimo chilometro). Così, la progressione lanciata sulla sinistra, da Mohoric, lo ha fatalmente sorpreso. In una fase in cui l’andatura dello slovacco era quella di chi controlla dalla testa, la progressione che partiva, senza che il tricampione del mondo se ne accorgesse, causava l’effetto di fargli perdere posizioni rispetto a tutti coloro che seguivano Mohoric, in primis Alaphilippe. Risucchiato dalla prima posizione fino al centro del gruppetto, mentre il traguardo si avvicinava rapidamente (inevitabile, a quelle velocità), Sagan si ritrovava costretto a rimontare in uno spazio non più sufficiente, finendo per chiudere quarto uno sprint di dieci unità.
“Sanremo maledetta”?
Pur tenendo in considerazione le difficoltà del percorso di avvicinamento alla corsa (su cui ha inciso il virus rimediato in Sierra Nevada, che lo ha costretto a cinque giorni di inattività) e pur rendendo i giusti meriti al fuoriclasse Alaphilippe, presentatosi al via in forma smagliante, gli osservatori non hanno potuto esimersi dalla critica alla volata di Sagan. Critica tanto giustificata e doverosa, quanto ipercontestualizzata. I già citati precedenti del 2013 e del 2017, infatti, hanno spinto non pochi a parlare di “maledizione Sanremo” e a individuare, quale causa del fallimento, una pressione psicologica che fa perdere lucidità a Sagan, impedendogli delle oculate gestioni del finale.
Premessa una personale diffidenza nei confronti delle chiavi di lettura “mentali”, molto comode perché capaci di giustificare prestazioni e risultati sulla base di fattori “volatili” e, dunque, non comprovati, ritengo principalmente che la ricostruzione psicologica della “Sanremo maledetta” per lo slovacco, presti il fianco a un’opposizione fondata su ragioni eminentemente tecniche e correlate al grande equivoco sulle reali capacità di Sagan in volate più o meno ristrette. L’equivoco circa la sua imbattibilità.
Gli errori in volata
Difetti di posizionamento ed errori sui tempi. Due fattori che hanno inciso sabato scorso ma che hanno condizionato anche la volata del 2013 persa da Ciolek, quando Peter decise di non prendere la schiena di Chavanel e di lanciare uno sprint lungo, non resistendo infine al ritorno del tedesco, e quella del 2017, quando cadde nel tranello di Kwiatkowski che creò il piccolo buco che indusse Sagan a lanciare un'altra volata decisamente troppo lunga, all’esito della quale risultò essere un comodo punto d’appoggio per il polacco. Tre situazioni in cui è emersa, in definitiva, una gestione dello sprint complessivamente approssimativa, poco lucida e in tutti e tre i casi male organizzata. Ora, se queste circostanze fossero isolate nello storico complessivo di Sagan e, quindi, esclusivamente legate alla Milano – Sanremo, non parrebbe azzardato utilizzarle come ipotesi a sostegno della teoria in base alla quale il particolare scenario della Classicissima influirebbe negativamente sulle capacità di Sagan nel gestire le ultimissime fasi della corsa. Se, invece, considerando l’intero ruolino di marcia del Sagan sprinter, si riscontrasse nello stesso la presenza di ulteriori situazioni di cattiva gestione dello sprint finale, allora la lettura che vuole un Sagan perdente solo alla Sanremo risulterebbe, appunto, un’ipercontestualizzazione.
Queste situazioni ulteriori esistono. Per trovarle non è neppure necessario andare troppo indietro nel tempo e, tanto per iniziare, si potrebbe addirittura rimanere in questo caldo mese di marzo, risalendo a pochissimi giorni prima della Sanremo, alla penultima tappa della Tirreno - Adriatico vinta (strano il caso!) proprio da Alaphilippe. La curiosa tattica inscenata dai Deceunink ha coperto un vistoso errore di Sagan (nel caso specifico anche della squadra) attinente tanto ai tempi quanto al posizionamento. A causa di un lavoro decisamente prematuro del treno Bora, Sagan si è trovato troppo presto al vento. In un momento in cui sarebbe stato folle lanciare la progressione, nel tentativo di trovare una schiena con cui coprirsi, Sagan ha calato l’ andatura mentre Richeze e Alaphilippe emergevano alla sua destra. Lo slovacco si è ritrovato, così, prima intruppato, poi obbligato a una rimonta tardiva e, perciò, vana. Le due situazioni, con i dovuti distinguo, hanno numerosi punti in comune.
Corsi e ricorsi storici: in un’altra Tirreno Adriatico, quella del 2016, e sempre nella sesta tappa, é possibile ritrovare un altro errore grossolano commesso da Sagan, in una volata a quattro rilevante anche per la classifica generale di quella particolare edizione, caratterizzata dall’applicazione dell’Extreme Weather Conditions Protocol, che comportò l’annullamento della tappa del Monte San Vicino. Sul traguardo in leggera salita di Cepagatti, in un gruppetto di quattro uomini con Kwiatkowski, Stybar e Van Avermaet, regalò letteralmente la vittoria al fiammingo lanciando uno sprint scriteriato, talmente lungo da apparire fallito già a cento metri dal traguardo.
Lo stesso Van Avermaet è stato causa, per Sagan, di cocenti sconfitte allo sprint, per cui si sono avanzate, anche in quel caso, spiegazioni in chiave psicologica riposte sul convincimento dell’ “acerrimo nemico” che Sagan pativa mentalmente. Se alcune di queste sono state evidente frutto di una superiorità dell’avversario manifestata sul campo (in taluni casi, come alla Het Niewsblaad del 2016, ad esempio, è sembrato preponderante un netto divario di condizione a vantaggio del fiammingo), o di circostanze di corse per cui non pare possibile parlare di vero e proprio errore, altre sono state caratterizzate da evidenti responsabilità di Peter proprio nella gestione dello sprint finale. Si pensi, ad esempio, alla volata a tre della Omloop Het Niewsblaad del 2017. Dopo aver fatto selezione con Van Avermaet e Vanmarcke, Sagan si sobbarcò tutto l’ultimo chilometro in testa, ai meno trecento provò un abbozzo di progressione a cui Vanmarcke abboccò, ma si rimise inspiegabilmente sui pedali perdendo velocità e lasciando, peraltro, l’interno a Van Avermaet, che lo infilò frapponendo il connazionale tra sé e lo slovacco, impedendogli anche in questo caso ogni velleità di rimonta.
Al limite dell’errore è, invece, la volata persa al Gp di Montrèal del 2016. In quel caso Sagan si assunse l’onere di chiudere su una decisa progressione di Bettiol, saltandolo ma rimanendo troppo presto al vento, obbligato a continuare una progressione lunga che perse fatalmente smalto a vantaggio di un violento ritorno di Van Avermaet, fresco campione olimpico.
Una condizione straordinaria a copertura delle sbavature
La discutibile gestione di taluni sprint finali è ravvisabile in due ulteriori, particolari circostanze. Il riferimento corre a due momenti trionfali dell’esperienza di Peter Sagan al Tour de France, che hanno però palesato quanto possa essere labile il confine tra la vittoria e il fallimento e quanto una condizione spaziale possa sopperire a piccole o grandi mancanze nella gestione dei momenti topici.
Tre Luglio del 2017, terza tappa del Tour de France con finale sul difficile traguardo di Longwy, un chilometro e mezzo al 5,5% medio, scenario da volata all’insù che pur divergendo dalle omologhe in piano offre comunque spunti tecnici interessanti e un bel carico di complessità. Coperto alla ruota di Majka fino ai -400, Sagan assume il comando delle operazioni, si porta in testa al gruppo e comincia un difficile lavoro di controllo dalla prima posizione. Come alla Sanremo, la testa si muove, si volta in continuazione per evitare sorprese. Mancano più di duecento metri quando Sagan lancia la progressione, con Van Avermaet a ruota. La frittata sembra fatta quando a Peter scivola inspiegabilmente il piede dal pedale destro. La volata, oltre che ostacolata dall’incidente, è lunghissima (Van Avermaet, che lo ha seguito per primo, finisce solo quarto), e solo una condizione stratosferica gli permette di resistere al ritorno di Daniel Martin e Michael Matthews.
Simile copione alla Saint Lo - Cherbourg, seconda frazione del Tour de France dell’anno precedente. Già davanti ai -300m, è costretto anche in questo caso a controllare dalla testa, con mosse simili a quelle ampiamente già prese in esame. A incidere positivamente è un lucido cambio di direzione che gli consente di collocarsi a lato, tanto da potersi accorgere della violenta progressione di Alaphilippe, che lo salta costringendolo ad appigliarsi nuovamente a gambe straordinarie per riprendere dai capelli una volata rimasta in bilico fino a pochi centimetri dal traguardo (Sagan manifesterà in seguito la propria convinzione di aver sprintato per il terzo posto).
Il mito dell’imbattibilità
Le circostanze appena prese in esame, diverse per scenari, dettagli e, in ultimo, esiti, non costituiscono un novero esaustivo. La sconfitta da Gasparotto (e Jelle Vanendert), in volata sul Cauberg, al culmine dell’Amstel Gold Race del 2012, ad esempio, ha aperto un dilemma irrisolto tra l’ipotesi di una gamba che ha lasciato un Sagan ancora acerbo a 50 metri dalla linea d’arrivo e la scelta di lanciare uno sprint forse troppo lungo.
L’impressione complessiva è che le straordinarie performance di Sagan in volate “canoniche”, di gruppo, quando si è trovato a fronteggiare, sovente battendoli, i migliori sprinter del mondo, unitamente alle sue multiformi abilità su traguardi più complessi, abbiano coperto dei deficit manifestatisi, alle volte, in modo vistoso, finendo per creare un’allucinazione collettiva circa un’imbattibilità che, semplicemente, non può essere di Sagan come di nessun altro. Una errata convinzione, questa, sicuramente giustificata dalle straordinarie capacità dell’atleta, ma che si scontra tanto con lo storico appena preso in esame, quanto con altre occasioni che hanno visto lo slovacco cedere non al Kittel, al Viviani o al Kristoff di turno, quanto piuttosto a Van Avermaet (sei volte), a Valverde, a Matthews, a Trentin, a Gerrans, a Debuscherre, oltre che ai vari Alaphilippe, Kwiatkowski, Ciolek, nei casi presi in esame.
Peter Sagan è dunque un finalizzatore scarso? Il rischio dell’ipercontestualizzazione sanremese, a cui si faceva riferimento all’inizio, non deve tramutarsi nel pericolo opposto e ancora più macroscopico: in quello, cioè, dell’assolutizzazione del giudizio. La rassegna degli errori che hanno inficiato la buona riuscita di qualche volata di Sagan, dunque, non può cancellare i numerosi colpi di genio, le dimostrazioni di forza e i tanti capolavori di abilità di cui lo slovacco ci ha omaggiati nei suoi dieci anni di professionismo.
Un cenno comparativo può aiutare. Di Fernando Gaviria Rendòn si parla, a ragione, come di uno degli sprinter più forti al mondo. Il dato ha i caratteri dell’evidenza e dell’oggettività, i numeri stanno a confermarlo, i successi lo certificano. Eppure “El Misil” non è esente da macchie, da errori gravi, nei tempi e negli anticipi, nel posizionamento e nella concentrazione. Circostanze quali la progressione nel Gran Premio di Francoforte 2018, lanciata follemente ai meno 500 metri dall’arrivo e corredata da un clamoroso errore di linea nel taglio di una curva, o come le cadute che lo hanno coinvolto alla Tirreno Adriatico del 2018 (sesta tappa: Numana – Fano), in una fase ancora relativamente tranquilla di preparazione dello sprint, e alla Sanremo del 2016, quando finì a terra non riuscendo a evitare lo scarto di Van Avermaet, a cui stava decisamente troppo incollato. Errori che hanno indotto l’osservatore a interrogarsi sulla sussistenza di eventuali difetti dello sprinter Gaviria, ma che non possono mettere in dubbio il potenziale del colombiano, né la legittimità della sua presenza nell’Olimpo delle ruote veloci.
Conclusioni analoghe valgono per Peter Sagan, straordinario velocista capace tanto di capolavori a 70 chilometri all’ora, quanto di fatalities mortali su traguardi più complessi, ma di certo non onnipotente, né alla Classicissima, né altrove. Non al punto, almeno, da farci edificare chiavi di lettura arzigogolate per il pessimo sprint di Sanremo. Lo storico, che si è provato di imbastire, vuole essere una somma di indizi. Una sequenza di mosse sbagliate e di manifestazioni di quell’umanità che implica l’errare. Un dossier che ci consegna un corridore non minimamente intaccato nella sua maestosità, ma neppure esente da profili di debolezza, su cui anche il gruppo potrebbe ragionare diversamente. Un bunch spesso impegnato in tentativi (riusciti) di corrergli contro, proficui se valutati col metro delle vittorie che allo slovacco sono state impedite, ma stucchevoli se solo si fa la conta di quanti, in quelle circostanze, hanno accettato di perdere a propria volta pur di non farlo vincere.
Decisione, questa, di certo giustificata dal terrore del Sagan sprinter, ma fallace se posta alla luce della sua mistificata imbattibilità. Giuseppe Campolo (meglio noto come Primo)
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